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Lavorazione di un Fumetto: Evoluzione

Inserito da Fenfen Superior Jounin | 11 novembre 2008 - 12:04 | Categoria: Altro | 1407 Visualizzazioni

barilucc2008.jpgNell'ottima rubrica di MangaForever.Net in cui si intervista Andrea Baricordi, questa volta proponiamo la prima domanda a cui il Kappa Boy ha risposto, che riguarda come negli anni 80 venivano prodotti i primi fumetti, e cosa è, ovviamente, cambiato oggi. Quindi, domanda e risposta (l'articolo è un po' lungo, ma se avrete pazienza leggerete qualcosa di molto interessante, anche perchè il Capitan Barikko l'ha reso al meglio):


"Ancora ricordo con nostalgia la spiegazione data sulla prima edizione Granata de “I Cavalieri dello zodiaco” in merito agli stadi di lavorazione di un manga prima della pubblicazione (in Italia). Ad oggi il lavoro è cambiato molto con l’aumento delle attività svolte con  i computer: puoi farci una rapida panoramica/riepilogo delle fasi di lavorazione di quindici anni fa e di come sono cambiate le cose?

Allora tieniti forte, perché ne ho un bel po’ da raccontare.
I primi lavori svolti da me, Barbara, Massimiliano e Andrea Pietroni nell’ambiente dell’editoria a fumetti risalgono alla seconda metà degli Anni Ottanta, quando realizzavamo in cantina (con carta, forbici, colla e fotocopie) la pro-zine MangaZine e a quando lavoravamo per Granata Press come service editoriale per Play Press. All’epoca (vent’anni fa, nel secolo scorso… anzi, nel millennio scorso!) i manga non erano ancora arrivati, e quindi si lavorava prevalentemente sui comics americani della DC e della Marvel. Il materiale arrivava dalle case editrici americane su pellicola trasparente, quindi per poter realizzare il lettering (riempire col testo le ‘nuvolette’), prima dovevi togliere il testo originale. Ti prendevi una bella lametta da barba, o la punta di un cutter, e ti mettevi per ore e ore a ‘sgarzinare’ via l’emulsione nera e la plastica. Dopodichè, sull’altro lato, rimasto ‘liscio’, col tuo bel Rapidograph scrivevi a mano dentro le nuvolette, cercando di evitare di macchiare tutto con l’inchiostro, restando dentro i margini, impazzendo per mantenere il testo sempre della stessa dimensione, e inveendo contro la malasorte quando scoprivi, a fine balloon, che non ci stavi dentro, e quindi che dovevi cancellare tutto e ricominciare daccapo con un lettering più piccolo. Oppure chiamando il traduttore e chiedendogli istruzioni telefoniche (dato che non c’era ancora la comodissima, fondamentale posta elettronica) di tagliare qualche parola o compattare una frase. La soluzione più comoda per me fu durante la lavorazione ‘in solitaria’ di uno specialone dei Transformers, che gestii interamente traducendolo e letterandolo in simultanea: leggevo l’albo originale, e buttavo giù la traduzione direttamente sulla pellicola facendo il lettering. Normalmente, invece, la traduzione ti arrivava su carta, battuta con una macchina da scrivere: il MacIntosh Classic sarebbe arrivato di lì a poco (ed era una meraviglia, tanto che ne ho conservato uno che ancora ogni tanto accendo), ma in attesa dei programmi Word e della miracolosa stampante a inchiostro, bisognava attrezzarsi con strumenti la cui ideazione era avvenuta sul finire del Milleottocento.

Una volta svolto il lavoro, lo si fotocopiava pagina per pagina su carta, cosicchè il lettore di bozze poteva correggerlo. Al che, gli errori andavano di nuovo ‘sgarzinati’, la pellicola martoriata lisciata (col il dorso dell’unghia del pollice, che era fenomenale per questo tipo di operazione), e il lettering rifatto sopra con estrema cura, perché difficilmente avresti potuto correggere una seconda volta. Per cancellare, alcuni usavano uno stuzzicadenti con un minuscolo batuffolo di cotone in cima, intriso di alcool, ma il più delle volte finivano per cancellare anche le altre lettere intorno, per cui questa tecnica non ebbe mai grande successo.
Quando iniziammo a pubblicare i manga attraverso Granata Press, i problemi aumentarono: oltre al lettering, era necessario occuparsi delle onomatopee giapponesi e del ribaltamento di insegne, cartelli, loghi, marchi che apparivano nelle tavole.
Col Photoshop o altri programmi simili oggi è molto semplice, ma allora dovevi veramente metterti lì come un frate certosino miniaturista del Milleecento, cancellare l’onomatopea su un lato della tavola (evitando di eliminare il resto del disegno, che una volta cancellato non era recuperabile con un semplice ‘melazeta’: era andato per sempre, e tu eri nella merda, old boy!) e creare sull’altro lato un’onomatopea leggibile, degna di questo nome. Quando ti trovavi poi di fronte a una tavola piena di linee cinetiche o di retini, la tecnica più utilizzata era quella di buttarsi dal quinto piano e lasciare sulla scrivania un cartello con su scritto «Addio, mondo crudele».

Chiaramente, sia lettering che adattamento grafico delle onomatopee, essendo realizzati su pellicola con l’inchiostro, andava messo da parte ad asciugare; dopodiché, bisognava sovrapporgli un foglio di carta velina per evitare lo sfregamento con le altre pellicole impilate sopra e sotto (cosa che avrebbe potuto graffiare la tavola e cancellare il duo duro lavoro!), e alla fine mettere il tutto in una busta voluminosa e pesantissima (immaginatevi 200 fogli di plastica trasparente impilati l’uno sull’altro, intercalati da altrettanti fogli di carta) e portarli fisicamente alla casa editrice, se lavoravi a casa. A fine giornata, eri completamente ricoperto di trucioli di plastica sgarzinata (che in quanto ‘elettrificata’ staticamente dallo sfregamento, continuavano a sbucare dal nulla anche a giorni di distanza fra le pieghe dei vestiti), avevi le dita macchiate d’inchiostro come uno colpito dalla peste nera, e puzzavi d’alcool come un ubriacone all’ultimo stadio, ma il lavoro era fatto.
Per un albo americano contenente tre storie, ti partivano dai tre giorni alla settimana di lavoro, a seconda della difficoltà del testo e dalla capacità individuale.
Per i manga, più o meno lo stesso (più pagine ma meno testo), ma il pacco lo dovevi poi consegnare all’adattatore grafico per le onomatopee, quindi il tempo totale di lavorazione sulle pellicole era più lungo di quasi il doppio rispetto a un fumetto americano.

Poi c’erano i redazionali, che coi primi MacIntosh Classic si potevano già impaginare comodamente su uno schermo grande poco più di una busta da lettera in bianco e nero (senza grigi), ma poi bisognava spedire tutto il progetto dell’impaginato al fotolitografo che ricomponeva il tutto su pellicole da mandare in stampa. E spesso ti toccava pure colorare illustrazioni in bianco e nero da usare come copertina, visto che non sempre esisteva la diapositiva originale. Quest’ultima pratica è continuata in alcuni casi particolari fino all’inizio degli Anni Novanta: se ricordate, alcune cover della prima edizione di Orange Road erano colorate da noi con la tempera (a mano, quindi) e hanno avuto perfino il discutibile ‘onore’ di essere scelte da qualche piratone da fiera per realizzare poster senza pagare un minimo di diritti all’editore nipponico.
E per la creazione dei titoli, visto che c’erano sei font disponibili in tutto (Courier, Geneva, Times, Helvetica, Chicago e Monaco) senza peraltro la possibilità di aggiungere effetti estremamente basic come strizzamenti o allargamenti, ombre, bordini, filetti, controfiletti eccetera, ti conveniva darti da fare e crearli a mano, a parte, su un bel foglio di carta con gli strumenti classici come Rapidograph (inchiostro) o tiralinee (tempera e acrilici), e poi acquisirli con i primi scanner, esclusivamente in bianco e nero (poi il colore lo inseriva il fotolitografo, su indicazioni scritte a penna sull’impaginato cartaceo).
Oggi è tutto molto più semplice.
Tranne casi particolarissimi, non girano quasi più pellicole, il lettering e gli adattamenti grafici si fanno su un monitor, con tastiera, mouse e penna ottica, puoi salvare il lavoro fino al punto in cui sei arrivato, ed eventualmente rifarlo se non ti convince molto.

Invece di far circolare voluminosi pacchi pieni di plastica, fai una bella e-mail o copii tutto su una chiavetta USB, arrivi in redazione splendido come il sole e leggero come una piuma, e ‘scarichi’ il lavoro nel computer del grafico che poi si occuperà di inserirlo nell’impaginato definitivo.
Lo stesso dicasi per i redazionali, che puoi impaginare direttamente a colori, importando le immagini al massimo della definizione, variando font, dimensione corpo, larghezza, altezza, carenatura, colonne, creando colori ed effetti, e facendo un po’ come diavolo ti pare.
Non parliamo poi di scrivere i redazionali. Oggi con internet e un paio di mail di richiesta informazioni alle case di produzione, puoi entrare in possesso di tutte le nozioni che ti servono per scrivere un bell’articolone, e magari di avere anche il permesso di pubblicare immagini esclusive. All’epoca, senza internet, e-mail e tutto il resto, o eri già documentato per i fatti tuoi, o viaggiavi parecchio (e il Giappone era molto più distante di oggi, e non parlo in senso geografico), o comunque dovevi letteralmente captare le informazioni da qualsiasi micro-fonte disponibile, e in genere rarissima. Oggi un libro come Anime, guida al cinema di animazione giapponese, può far sorridere, ma all’epoca fu uno sforzo titanico, mettere insieme tanti dati e tante immagini che non si trovavano letteralmente da nessuna parte. Per non parlare delle traduzioni: trovare un traduttore di giapponese significava stringere patti con Cthulhu in persona, e comunque gli unici in grado di farlo  professionalmente e in maniera affidabile erano assoldati dalle società di interpretariato, che per le lingue orientali all’epoca avevano prezzi proibitivi.

Oggi invece – proprio grazie alla diffusione del manga – un’intera generazione di italiani ha studiato il giapponese, e affolla le caselle di posta degli editori con curriculum di tutto rispetto. Inizialmente abbiamo lavorato con coppie formate da una persona di madrelingua che traduceva alla lettera, e un responsabile italiano che… traduceva la traduzione in italiano corrente. Successivamente, il lavoro passava all’adattatore dei testi, che trasformava l’italiano scorrevole in italiano discorsivo, accentuando le caratteristiche originali dei personaggi e dando quel tocco in più che permetteva ai lettori italiani di godersi l’opera come l’aveva concepita il suo creatore originale. Al giorno d’oggi la coppia “madrelingua+italiano” è stata quasi del tutto rimpiazzato da un unico traduttore molto professionale, che può essere un giapponese che vive in Italia e conosce la nostra lingua alla perfezione, o un italiano che ha studiato giapponese e che magari ha vissuto o vive tutt’ora in Giappone. A questa figura, viene comunque accostata a fine lavoro quella dell’adattatore dei testi, sempre per aggiungere qual tocco in più. E alla fine, ovviamente, c’è sempre la correzione di bozze, e un’ulteriore ‘rilettura tecnica’ del responsabile di testata, che sistema le battute rimaste ostiche, aggiunge annotazioni, controlla che tutto sia coerente, e via così.

La tecnologia ha permesso di fare tutto molto più velocemente, sia le lavorazioni, sia gli spostamenti di materiale. I collaboratori possono anche abitare in altre nazioni, e a volte per te lavora addirittura gente che non hai mai visto in viso, e con cui parli non al telefono, ma via mail.
Se quella umana fosse una razza intelligente, avrebbe usato il tempo risparmiato grazie alla tecnologia per andare a lavorare un po’ più tardi al mattino, avere una pausa pranzo degna di questo nome, tornare a casa un po’ prima ogni sera, dedicare più tempo agli interessi personali, alle passeggiate, a stare in compagnia di amici e parenti. Invece, visto che le è rimasto del tempo a disposizione, ha deciso di riempirlo… con altro lavoro. E dato che per fare altro lavoro (farne di più, in modo da sbaragliare la concorrenza!) è necessaria maggiore velocità di esecuzione, sono stati creati apparecchi sempre più evoluti e veloci, che hanno ulteriormente ridotto i tempi di lavorazione. Motivo per cui, nel tempo rimasto, si è deciso… di fare altro lavoro ancora, dimenticandosi che nel frattempo un pochino bisognerebbe anche vivere. E invece no: abbiamo inventato anche il modo di lavorare di sera a casa, nei fine settimana, e in vacanza, perché con il cellulare, la mail, internet, il palmare e qualche altro boiafaust tecnologico, il lavoro te lo porti dove vuoi tu!

Mah! Voi umani siete tutti pazzi: io me ne torno sul mio pianeta./>"




Sul sito di Mangaforever il resto dell'intervista, in cui si parla anche di importazione e di mercato.
pippipippo92 avatar
Master Jounin avatar
11 novembre 2008 14:57
0 +1 -1
che lavoro!! (un tempo) mio dio!!

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